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  • Immagine del redattoreAndrea Pistocchi

Un anno fa sono morto.

Aggiornamento: 3 lug 2020

Il mondo accade e basta, nel cerchio imperfetto del suo scorrere, il tempo, l’imperfezione di questo moto oscillatorio formula promesse che gli amanti disattendono. L'irripetibile unicità di ogni singolo momento condanna la vita che non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce ad immaginarsi il desiderio.

Nell’aria fredda in un pomeriggio quasi finito il vento in strada butta la polvere in faccia, ruba i cappelli ai bambini e spettina i rami. È il vento che mi riporta nella risacca di una sfavillante solitudine, il vento che soffia da nord e che trascina con sé una inscindibile pioggia, che fa crollare il cielo turchese dietro la pece nera delle nuvole indecenti che si prendono tutto fino alla terra. Il vento, ancora il vento che frammenta il vetro sbilenco di questo terzo piano, vetro che trema come la mia mano, che raffredda il caffè che non ho ancora bevuto. Ogni certezza è come un filo di ragnatela mentre riascolto la tua voce nell’ultimo vocale della chat che non voglio cancellare. Mi sembri estranea, improvvisamente estranea. Mi conti le ossa, mi chiedi dove sono spartito.

Io invece penso che ho ancora troppa paura addosso. Accosto la finestra, piove, chi sa se ti accorgi che è la mia vita, davanti ai tuoi occhi, a cadere dal cielo?

L’aria è cambiata, gli appunti rovesciati sul tavolo accentuano la mia confusione.

È stata una crepa nel vetro, che non ha avuto altro effetto se non farmi rendere conto che c’è quel vetro, e ci sto guardando attraverso da un anno, la realtà continua a farmi del male, ma sto sbagliando, non mi ha più toccato la realtà.

Vestire di nero non è affatto una scelta. Non è che un giorno ti svegli e dici: da oggi comincerò a vestire di nero, da oggi non metterò mai più la felpa rossa. Capita, e non puoi farci niente. Non ti accorgi di nessuno stravolgimento, niente di improvviso. A un certo punto ti ritrovi tutto in nero, le scarpe, i pantaloni, la maglia. I ricordi. Il nero è il primo colore che vedi, la prima distanza e anche la prima assenza. Ti ritrovi addosso un corpo che è diventato una linea, una debolezza improvvisa, un po’ curva in prossimità della schiena. Se passi la mano sul petto senti la sporgenza del battito sotto un passaggio di costole a rilievo e sulle caviglie puoi vedere i lividi delle cinghie di ferro che mi tengono fermo e fanno di me soltanto peso.

Capita, e non può essere solo una questione di pigrizia, c’entra una sorta di rinuncia, qualcosa di affine all’arrendersi. La vita quotidiana ha un moto inerziale verso l’insignificanza, una quieta e sicura insignificanza. Come se fosse nella natura dei viventi lo spegnersi nel vuoto, e un impennarsi doloroso della volontà a qualsiasi tentativo di salvezza. Così ti fermi lì, in un frammento di vita comune che ti esplode tra le mani e non sai come tamponare. Un giorno capita che te la senti addosso, la colpa; e comprendi che non ti lascerà più. Svegliarsi e non sentire niente, respirare senza che l’aria ti riempia; svegliarsi, e non vivere…

Un anno fa son morto!




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