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  • Immagine del redattoreAndrea Pistocchi

Domani ...

Aggiornamento: 15 nov 2021

1

La mano stende lenta le pieghe della tovaglia, come tutte le mattine la consuetudine della moka sul gas sentenzia che la condanna del letto è finita. La tazzina, lo zucchero la molletta che chiude il pacco dei biscotti, aspettano il proprio turno. Gli occhi sul centrotavola e poi sul bicchiere giallo, che odora di credenza. Dalla finestra una raffica sventaglia i rami, avanti e indietro, come un pendolo. Cerco di cancellare le imperfezioni dai ricordi; lo sguardo lanciato oltre l’estremo orizzonte della finestra non fissa nulla di particolare, aggiusto le immagini, poi mi guardo le mani, le avvolgo nell’aria come a raggomitolare la lana, poi ancora sguardo sul nulla. Penso a quella volta che, in quarta elementare, sono tornato a casa e con un’ innocenza disarmante ti ho chiesto: Mamma, cosa sono gli orgasmi?

Avresti voluto sprofondare per sottrarti alla vergogna; blaterasti qualcosa e promettesti di affrontare l’argomento quando i tempi sarebbero stati più adatti. Eri una donna piuttosto riservata; avrai sicuramente pensato che forse era il caso di dare una ripassatina ai fondamentali, giusto per capire a che punto stavano certe cose – che vuoi che sia.

Che linguaggio usare? Boh, seguirò l’istinto, meglio non prepararsi niente. Si sa, i bambini hanno una strana confusione in testa, a quell’età. Sanno le parole ma ignorano la necessità dei gesti. Accoppiano male. Credono di sapere, ma non sanno. Tanto vale che lo sappia da me che non è una questione di ortaggi, che non deve temere nulla se gli chiedo di andare a strappare una cipolla dalla terra, che tanto non c’è appeso nessun bambino lì sotto e non si ritrova padre a 9 anni.

Quel giorno ti aspettavi, come tutti i giorni, i bigliettini fatti a scuola. Una cornice di mollette, un segnalibro di corda, collane di pasta secca, ed invece sei stata costretta a parlare di orgasmi, ad un essere che superava appena il metro da terra. Non lo avrei immaginato che un giorno non lontano ci avrebbe pensato un disegno sul muro del cesso della scuola media a sottrarti da quella imbarazzante incombenza da genitore responsabile.


Mi anestetizzavi di baci nei pomeriggi infiniti e un po’ sonnolenti, quando venivi a prendermi prima, all’uscita dall’asilo. Mi coprivi di braccia e mi stringevi come un tesoro prezioso nella distanza che ci separava da casa. Sapevi di zucchero filato.

Mi rivedo sul pavimento, la domenica pomeriggio, d’inverno, quando con le tue sorelle prendevi il caffè, tutti insieme sotto la luce ocra della lampada con il paralume di vimini, ti salivo sulle ginocchia e mi lasciavi leccare il cucchiaino con lo zucchero.


Tu mi proteggevi da un mondo che detesto.


2


La campana delle 10 scuote la radice dentro di me e nel sussulto cade un altro ricordo nitido, entro nell’odore vago di muffa dell’ingresso aggiusto i passi sulle scale che portano dentro, dove strillavo e mi infilavo sotto il tavolo se ne combinavo una delle mie. Vivevamo tutti in due stanze, la cucina era divisa dal soggiorno con una tenda di lino, grigia e pesante come certe nuvole a novembre. Poi una porta, un giro di scale e c’erano i letti attaccati, dovevate rubarla l’intimità tu e papà a volte, ma era bello… eravamo tutti vivi allora.


Mi concentro sulla lampadina al neon del soffitto capace di trasmettere un freddo ancora più intenso e siderale di quello che c’è in me, mi accorgo di essere chiuso dentro un esilio. Quello che poteva uccidermi qui, mi ha già ucciso. Quando stavo in città mi piaceva passeggiare perché nulla mi ricordava chi fossi realmente, potevo nascondermi bene e gli occhi degli altri non mi trovavano mai. Qui invece non ci sono uscite d’emergenza o maniglie antipanico e non trovo la strada. Mi possiede un demone e gioca con la mia stabilità.

Esco di rado, passo ore alla finestra a guardare frammenti di cielo e di nuvole. Sul portone non c’è il numero civico, nel caso mi arrivasse una lettera il postino come farebbe a recapitarla? So di chiuso come la stanza in cui mi sono consegnato alla detenzione. Se tolgo la maglietta sono un passaggio di costole sotto pelle, di vene senza altra sostanza, solo pelle e ossa e una linea di vertebre che divide le scapole sul retro. Sto curvo, assumo la posizione di chi ha preso una pallonata sullo stomaco. Sono una bolla impenetrabile per le mie stesse preghiere. Certi giorni sono più vulnerabile più attento a difendere le distanze, sto dentro il fortino di libri e silenzi, alzo barriere di poeti e fallimenti e mi rendo irreperibile.

Come stai?

Chi? … Io?

Non ho più la sorpresa delle stagioni.

Il tempo non anticipa niente e tutto si sviluppa in un moto inerziale, senza stupore, appunto.

Poco fa ho spento la luce e mi sono steso a letto. Il mon­do esterno, di cui non sento che il brusio indistinto, ha smesso di esistere. Non resto che io e...

Qui sta il punto. Ma non importa.

Conosco a memoria il mio spavento, ogni giorno fa un giro intorno al cuore, mi stringe il battito ma non lascia ferite. Fuori ci sono luci e frastuoni, una moltitudine di fili si intrecciano, si incrociano tutt’intorno a questo nodo, mi avvolgono. Ma qui sono al centro. Qui posso stare in silenzio, o parlarti senza voce.

Come stai?

Chi?… Io?

Male!

È cambiato il mio viso, si sono spenti gli occhi. Sono naufragato su un isola atemporale e disadorna. Non mi percepisco più come intero ma io allo specchio mi vedo tutti i giorni e tutti i giorni non mi riconosco, per non parlare della faccia, delle rughe, dei capelli che vado perdendo in giro come se fossi un segugio al cambio del pelo. Un corpo davanti a me che non è un corpo ma una linea appena un po’ curva in prossimità della schiena, una debolezza improvvisa nel disegno delle braccia e un equilibrio incerto sulle gambe. È un uomo, quello allo specchio, ma lo vedo sempre un bambino.


3


Domani.

Domani mi sarei svegliato, il programma della giornata avrebbe previsto la consueta routine: prepararmi, uscire per andare a lavorare, un caffè tra colleghi, passare a fare la spesa, una passeggiata o che so, perdere la testa per qualcosa di irrealizzabile. Invece mi ritrovo improvvisamente in un buio popolato solo dal mio fiato. Qualcosa si è inceppato, sta qui e non funziona più come doveva.

Domani è domani.

Il telefono squilla ale sette, poco prima della sveglia. Rispondo ancora in ostaggio del sonno.

Dall’altra parte una voce cerca di mantenere la calma:

Devi tornare! Stiamo aspettando il dottore, ci sono gli operatori sanitari.

Torna!

Non segue altro. Riattacca. Rimango in silenzio sono nella mia stanza ed è tutto profondo, più ampio e più grande di quanto io ricordassi, sono così piccolo che scompaio tra le coperte del letto disfatto. Il telefono impazzisce di notifiche, trema sul comodino e io nel letto.

Non leggo niente.

Sento tutto come attraverso un vetro. Dal bicchiere sul comodino mi verso dell’acqua sulle mani, mi bagno il viso, non capisco, sto ancora dormendo?

Scendo dal letto, le gambe non reggono, sono un fascio di brividi, è tutto silenzioso.

Continuò a ricevere messaggi di cose dette e non dette, chiamo ancora a casa


Cosa sta succedendo?

Cosa sta succedendo?


Nessuno risponde.



4

Tentativi, siamo tutti tentativi imprecisi, scarabocchi di qualcosa che non prende forma. Occhi stanchi, bocca serrata, ad ogni alba comincio a spogliare per inerzia un’altra notte insonne. Ad aver avuto le branchie ci avrei, credo, guadagnato in salute: perché certe apnee ti divorano e l’aria nei polmoni non basta mai. Vivere in apnea o a giorni alterni non mi ha reso più forzuto. In ogni nome c’è un destino, mi sento quasi sparire ogni volta che qualcuno pronuncia il mio. Una volta ho sentito dire che l’apostrofo è una lacrima sospesa che piange la caduta di una vocale. Da un anno coniugo i verbi al passato quando parlo di te, e sono un un apostrofo… sospeso.

Qualcosa a cui nessuno fa caso perché non è nemmeno una parola: un suono sordo, un tonfo che si fagocita da solo. Urla soffocate che cadono a terra come grandine sul mare e io a pelo d’acqua le vedo precipitare. Un tonfo e più nulla.


Ci si fa un’idea di sé; un’idea che è pura follia, poiché nessuno la approva e neanche la capisce o la immagina. Nondimeno si vive con lei, e neanche si sospetta che non abbia alcun senso, se non a tratti, in quelle sospensioni, in quegli intervalli che spezzano per un attimo la continuità della suddetta follia. Si tratta allora di lucidità? O di una follia ancora più grande? Non lo so!

È cambiata la casa in cui vivo che sì, è sempre la stessa, ma è molto più incasinata di prima, praticamente un deposito di oggetti d'ogni genere:

È cambiata la stagione. Oggi a Firenze non è mai diventato giorno. Le luci in casa sono accese dalle 10 del mattino.

È cambiata anche la mia autostima, che è un indice da sempre piuttosto altalenante, che certe volte s'impenna e più spesso cade in picchiata. Che risponde a questo nuovo ruolo di adulto, che non mi piace affatto, ma risponde pure ai ruoli che ho avuto prima, nei precedenti 40 anni della mia vita.

È cambiato tutto. Sono cambiato io e continuerò a farlo. Mi adatterò. Crescerò. Costruirò un nuovo incastro e va bene così. Ma se mi chiedi come sto, la risposta è questa qua.

Ho urlato!

Ho urlato così tanto che la voce s’è rotta. Ho stretto le mani sul petto e mi sono strappato il cuore, adesso ho un buco e non sento niente.

Eri stanca, stremata, ti portavi dentro tutte le nostre colpe e non ti alleggerivi mai ma continuavi ad essere una chiesa che non mi dava penitenze, che mi perdonava prima di confessarmi senza chiedere offerta. I tuoi occhi come due navate mi conducevano alla croce del tuo cuore. Non avevo urgenza delle tue mani fredde al mio ritorno, delle mie braccia tese e nessuna risposta. Ci tenevi insieme e nessuno adesso può immaginare la distanza che c’è tra me e la vita ma se qualcuno ci riesce poi deve moltiplicare almeno per due. Ci siamo dispersi tutti come petali lanciati a manciate durante una processione.



5


Cala un silenzio spesso che fa male, mentre tutte le mie parole sono ancora sospese nell’aria. Ho ancora il vizio di controllare il cellulare e aspettarmi un tuo messaggio, ho provato a curarmi, ma è tutto ancora violento e presente, i ricordi sopraggiungono da ogni direzione e inizio a singhiozzare: eravamo piccoli, vivevamo ancora nella casa dove dormivamo tutti in una stanza. Quella volta, per gioco, papà tagliò una mela, ne diede un pezzo per ciascuno e ti prendeva in giro perché a te non l’aveva lasciata. Poi siamo andati a vivere nella casa dove ognuno di noi aveva la propria stanza forse è lì che sono cominciate le nostre solitudini. Ma ancora oggi in un certo modo, io sono rimasto quel bambino che attraversa il corridoio, oltrepassa il limite della pesante tenda di lino grigia e tende le mani con uno spicchio di mela verso di te con l’intenzione di riordinare le nostre braccia spaiate. Forse sono da biasimare perché mi ostino a rimanere in certi luoghi che non esistono ma a volte una soluzione sembra plausibile solo in questo modo, sognando. Forse perché la ragione è pavida, non riesce a riempire i vuoti tra le cose, a stabilire la completezza, che è una forma di semplicità, preferisce una complicazione piena di buchi e ancora la volontà affida la soluzione al sogno.


Da domani ho imparato molto.

Soprattutto, come una volta o l’altra perdiamo

quanto in teoria non si potrebbe perdere:

le persone, le strade, un treno, una possibilità

e come il cuore non muore quando sembra che dovrebbe farlo.

Domani.


Il tempo è distratto e scorre senza un progetto, l’orologio da che verso ci ha lasciati indietro?


Se non fosse per la pioggia

tutto sarebbe immobile

in questo buio di attesa.

Tornerà la vita a rompere questo vuoto?

Tornerai mamma

a tenermi la mano nella stanza nera?


Ho paura del buoi come allora

ho nel petto un senso di cose perdute

un corpo invecchiato

una mente stanca.

Ho preso un pezzo di mela e sono venuto a cercarti

dove sono le tue mani che tanto mi consolavano…


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