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  • Immagine del redattoreAndrea Pistocchi

Festa della mamma




A volte, nel chiarore pallidissimo tra notte e giorno, credo che tu sia nella tua stanza,

già in piedi, sola ad aprire imposte e ricevere il giorno.

Accompagnando i miei ultimi sogni con l'incedere dei tuoi passi.

Quasi ne sento il suono sommesso. Ma, il buio che traspare oltre la porta, mi avverte che m’illudo.

...



La storia di una solitudine comincia da un punto qualsiasi. Da qualche disgrazia che per caso ci capita mentre siamo impegnati a sottovalutare il tempo. Poi è solo un ricordare, e quando si arriva a questo punto, è già tutto molto complesso. Noi non sappiamo dove tende la vita: perciò la sua storia non ha principio, e se ne può dedurre la meta solo vagamente.



Le sere hanno lo strazio di certi dialoghi privi di senso che avvengono tra me e me stesso sugli ultimi eventi che sospingono a ipotesi diverse. Tutto si capovolge. Nella pietra scolpita c’è il tuo volto. Naturalmente, a Dio non mi rivolgo.


Cosa rimane?


Tetre sere che si ripetono inesorabili. Dentro adesso abbiamo un filo spezzato, per questo ognuno se ne sta per fatti suoi.



Non pensare è difficile. I ricordi tornano anche se non li cerchi, ti prendono alle spalle e questi sono giorni che non passano. Ci sono dei tagli che non si richiudono, tagli profondi.

Se non sei un chirurgo, se non sai ricucire bene, meglio lasciar stare, non fare nulla. Ci sono tagli che fanno evaporare l’anima.


Ho sempre avuto ferite che solo tu hai saputo ricucire. Mi rimettevi a nuovo ogni volta che l’anima si strappava. Dopo di te nessun dottore ha saputo ricucire.

Nel guardarti sapevo che andava tutto bene, sapevo che dentro quello sguardo c’era il mio mondo intatto, ancora. Eri il mio riparo dalla stupidità ma non mi hai mai riparato dell’amore. Forse non lo sapevi che avresti dovuto proteggermi dall’amore.



Adesso ho tanta paura di perdere qualsiasi altra cosa amata, che non voglio amare più niente.



Te ne sei andata sola, nessuno ha gridato per te. Nessun preavviso, nessun biglietto sul frigorifero o un messaggio sul telefono. Si riesce ad immaginare che significa? Andarsene nel silenzio?

Il mio universo ha da sempre ammucchiato abbandoni, ma questo non lo supero, è un’impronta scura che mi raggiunge e mi schiaccia. Prima di sera un’altra si aggiungerà alla marcia, come accade ogni giorno. Nella risacca notturna del cuore s'aggruma l’assenza. Da quando nel buio di un novembre ho imparato a tacere.



Torno indietro, ripercorro i viali alberati, le stagioni lente e poi sempre più veloci. Devo capire quando mi sono perso, quando mi sono lascato ingannare. Intorno e dentro di me c’è un’aria densa e irrespirabile, qui in città è facile affogare.


La mia vita è un decorso di cerimonie incompiute. Il tempo colleziona i miei eventi perduti, li impila in ordine crescente e un giorno mi racconterà tutto quello che mi sono perso. Il silenzio, quello vero, che mi sostiene dietro a tanto rumore mi mette difronte ad un’eternità di rimandi. Se ci sono parole che io non conosco, sono quelle che parlano di me. Non le so usare, non l’ho mai fatto.


Il cuscino è bagnato, troppo. Non possono essere solo le lacrime. Infatti non è cosi, sono gocce grandi, pesanti, che scendono fitte. Siamo noi, bambini, vicino alla fontana, tu che ci guardi mentre intrecci la lana e fai finta di rimproverarci:

Non vi bagnate che poi vi sale la febbre!


Intanto ridi e ti diverti a guardarci ridere. Corro verso di te, ti abbraccio, faccio respiri profondi, forse è quella l’ultima volta che ho sentito il sapore dell’aria.

Noi che giochiamo a spingerci, nostra sorella che legge in disparte e poi io che grido: mamma mamma mamma, è successo un guaio!


Tu che resti dove sei e mi dici: quand’è che cresci?


Adesso mamma!


Adesso sono cresciuto! Adesso che devo fare a meno delle tue parole. Adesso che devo fare del mio dolore un nuovo abbraccio.



Adesso!



Prima di addormentarmi, comunque, ho ancora necessità di immaginare il tuo movimento, tu che sistemi l’ultimo disordine in soggiorno e poi cadi sul divano per un po’ di tregua. No, non mi sono adeguato alla tua mancanza.


Che senso ha ora essere cresciuto?

Non sento più niente, nemmeno la paura. Piango, non mi accorgo nemmeno di farlo, non se ne accorge nessuno, non mi accorgo nemmeno di tutto il resto. Intorno accadono cose, c’è gente che parte, gente che resta, c’è chi entra ed esce dalla mia vita, ma non mi riguarda.



Perché mamma?

Perché ora?


Perché non posso dirti quanto è bello il tramonto dal piazzale?

Perché non torniamo a vedere i campi pieni di grano e i papaveri impazziti d’amore?


Perché la tua mano non ascolta più il dolore dal mio torace?

Non c’è nulla a separare i miei pensieri da questo male.


Intanto le labbra restano secche. Le labbra non servono se non ci sono parole da dire, se non ci sono baci da dare.



Quello che desidero è incontrarti, ancora una volta, solo una volta. Un giorno da qualche parte, anche per caso. Se succedesse ti confesserei tutto.

Ti direi: nella mia vita non ho amato nessun’altra che te.


Ancora un attimo mamma.


Restiamo abbracciati ancora un attimo.



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